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d’artista. Era l’aria prediletta dal povero babbo che mi strappava le lagrime. Era uno spartito che mi aveva insegnato Gualfardo, che mi rapiva in una serie di cari e dolorosi pensieri. Erano ancora quei due affetti, ancora quelle due memorie del mio passato. Ma là dove quegli affetti non si legavano pel vincolo misterioso d’una rimembranza, la musica mi lasciava fredda.

«Prendevo un pezzo irto di difficoltà musicali, cominciavo a cantarlo con tutte le finezze, con tutte le sfumature d’una interpretazione intelligente, ma tosto pensavo che Gualfardo non era più là per dirmi col suo volto impassibile: «Brava Fulvia!» e respingevo la musica dicendo: «Oh! che m’importa?»

«Domandavo a Rossini, a Bellini, a Verdi le loro melodie più appassionate. Cominciavo a cantarle con tutto lo slancio, con tutta l’anima; ma pensavo che i cari occhi del babbo non erano più là per empirsi di lagrime, e respingevo la musica dicendo: «Oh! che m’importa?»

«No. L’arte non bastava a riempiere il vuoto del mio cuore. Sentivo il bisogno non solo d’amare, ma anche d’essere amata.

«— Lo fui tanto! pensavo. Tre grandi affetti erano concentrati su di me. Quello del babbo, di Gualfardo, di Max...

«Max! Era la prima volta che il mio pensiero si