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non avevo più riposato un minuto. Le cure che la malattia richiedeva erano faticose, ed io consentivo a dividerle con Welfard, ma non a cederle a nessuno. Ero in uno stato di abbattimento; indebolita, convulsa. Il babbo, che aveva appena un filo di voce, mi accennò di accostarmi, e tenendomi abbracciata colle poche forze che gli restavano, mi disse:
«— Riposati un poco nella poltrona, mia cara. Mi farà bene a vederti dormire; e Gualfardo mi veglierà. Poi soggiunse:
«— Tuo marito mi veglierà; — e ci guardò entrambi con un sorriso di gioia celeste.
«— Ma tu come stai, babbo? gli chiesi con un senso di paura che non potevo spiegarmi. E se avesti bisogno di me?
«— Tuo marito ti sveglierebbe; dille che si riposi, Gualfardo; diglielo tu. E lo fissava coll’occhio pieno d’ansietà, come se desiderasse ardentemente di vedermi dormire.
«Gualfardo, che lo comprese meglio di me, ed indovinò che voleva togliermi al supremo dolore di vederlo morire, strinse il mio capo sul suo cuore, e baciandomi in fronte, mi disse:
«— Sì, Fulvia; dormi. Io ti sveglierò: — e mi condusse alla poltrona, mi accomodò i cuscini, mi coperse con uno scialle, poi tornò presso il babbo.
«All’istante il sonno mi vinse. Un sonno profondo,