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volta attraenti, repulsive, angosciose; ma non erano che sensazioni, ed il pensiero non ci si arrestava mai. Il pensiero di entrambi noi, era fisso alla malattia del babbo, ad alleviare i suoi dolori. Mai una volta mi domandai, che sarebbe di me quando quell’ultimo parente avesse cessato di soffrire. Tuttavia sentivo che nel tempo stesso che perderei il babbo, perderei anche Gualfardo. Ma lo sentivo senza pensarci. Il mio cuore viveva con tutte le sue potenze d’affetto, d’amor proprio, di tendenza istintiva alla felicità, di rimpianti, e d’aspirazioni; ma nella mia mente io ero completamente dimenticata, e con me tutto il mondo; non esisteva che quel filo di vita del mio povero babbo.

«E quel filo di vita si spense, senza angoscie, senza convulsioni d’agonia.

«Era trascorso poco più d’un mese dal mio arrivo a Torino. II babbo era deperito di giorno in giorno. Non lasciava più il letto. Le gambe gli si erano gonfiate enormemente; non si nutriva quasi più. E quella gonfiezza saliva, ed aumentava sempre.

«Da molte notti Gualfardo rimaneva a vegliare il malato con me. Non ci coricavamo più, non uscivamo più di camera. Quando uno era spossato si addormentava per poco nella poltrona da una parte del letto, mentre l’altro vegliava dall’altro lato. Era la vigilia degli Ognissanti. Da due giorni e due notti