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risalì, felice che dovessimo parlare in versi martelliani. Io mi prestai di buon grado alla scena tra Terenzio e Creusa, e da parte di Max, i versi di Goldoni non furono peggiorati certo.

«Quando cominciò la gente ad uscir dal teatro, gli dissi che lo spettacolo era finito, e che doveva ritirarsi. E ci lasciammo stringendoci la mano. Giovani, liberi, innamorati, riuniti misteriosamente, ci lasciammo con una stretta di mano, e fummo felici, «sotto l’usbergo del sentirci puri.»

XXVII.

«L’indomani colla prima corsa dovevo partire. Egli sarebbe venuto a prendermi per accompagnarmi allo scalo, per salutarmi ancora. E poi? Poi nulla. Non c’era prospettiva d’un altro ritrovo, non c’era avvenire per noi. Scriverci... era tutto.

«Erano le undici. Mi restavano quattro ore per finire di mettere in sesto la mia valigia, spettinarmi, svestirmi, dormire, poi rivestirmi, ripettinarmi. Ed avevo il cuore così angosciato, ero in tale eccitamento nervoso che prevedevo di passare una terza notte di veglia. Rinunciai affatto a coricarmi. Mi abbandonai in una poltrona col capo tra le mani, decisa ad aspettare là il momento della partenza.