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senza rispondermi. Aveva ragione di non rispondermi. Ero sciocco; non sapevo dir altro; cominciavo ad accorgermi d’essere monotono. Pensai tante buone cose da dirle; sognai di seguirla a Reggio, di vederla andare in iscena, e poi di proporle di fuggire con me in un piccolo casino svizzero lontano lontano, che mi pareva di vedere, e che era fatto come una pagoda chinese. E poi eravamo già fuggiti. Eravamo già là insieme nella pagoda, seduti in terra colle gambe incrociate bevendo il thè, ed io le domandavo con trasporto:

— Mi amate, Fulvia?

Ma anzichè udirmi rispondere qualche dolce parola, sentii una mano irritata strapparmi la tazza di thè, gettarmi fuori dalla pagoda, ed una voce ironica, senza note di petto, dirmi all’orecchio:

— Destatevi. Come siete brutto quando dormite!

Apersi gli occhi trasognato. Avevo dormito come uno sciocco nella famosa poltrona di Fulvia. E quel ch’è peggio avevo dormito brutto. Mi parve di vedere Giorgio danzare un valzer vertiginoso nella camera; balzai in piedi spaventato, e questa volta non più per divagazione d’ebbrezza, ma con profondo terrore domandai:

— Mi amate, Fulvia?

— No; mi rispose. Non vi amo più. Quest’orrenda notizia vi dò. E voltandomi le spalle andò a