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Allora mi allontanai per lasciarla calmarsi, ed andai a sedermi al pianoforte. C’erano due sgabelli rimasti dal mattino quando forse si era suonato a quattro mani. Io mi sedetti dalla parte dei bassi, e curvandomi con molto disagio suonai la sinfonia del Freyschütz; poi l’aria del tenore nel primo atto: L’onda, il colle, il prato, il bosco.

I singulti di Fulvia s’erano allentati man mano. Mi voltai. Ella stava guardandomi col mento appoggiato alle mani incrociate; era accesa in volto ed aveva gli occhi gonfi. Mi baciai una mano poi vi soffiai sopra per mandarle il bacio. Ella volle sorridermi, ma le lagrime tornarono ad empirle gli occhi. Allora le dissi:

— Cantate, Fulvia; venite a cantare.

Ella si alzò asciugandosi gli occhi, e, con voce ancora piangente, mi disse, allontanando l’altro sgabello:

— Tiratevi in mezzo. Siete seduto a quattro mani.

Io risi e mi divertii di quello scherzo come del più felice motto di cui possa gloriarsi il Pompiere, e riescii a far ridere anche Fulvia, che, come tutte le persone nervose, non era mai tanto facile a ridere come quando aveva pianto.

Allora intuonai la grande aria di Agata: Perchè non giunge il sonno.

E Fulvia la cantò divinamente, passando dal lagno increscioso alla dolcezza della