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trici, e via per Torino in cerca di un altro alloggio.

Lo trovai in via Pio Quinto, all’altro capo della città. Mi presentai sotto il nome di Ernesto, e posi il cartellino collo stesso nome sull’uscio. Poi scrissi a mia madre che avevo conosciuto un altro Eustacchio Rossi, e la pregai di dirigermi le sue lettere al nome di Ernesto per evitare confusioni.

Quel nome mi portò fortuna. Nessuno mi derideva più. Ebbi quasi subito un’avventura colla serva d’un salumaio sotto i portici di San Salvario. Non era bella come la sartorina dagli occhietti lucenti, ma era meno insolente. Mi voleva bene, mi trovava bello, e mi chiamava Ernesto.

Io glielo facevo ripetere cinquanta volte in un’ora. Non potevo saziarmi d’udire quel nome che mi accarezzava l’orecchio e mi compensava di tutti i dispiaceri che m’aveva dato quell’altro.

A poco a poco stando a Torino divenni elegante fino a farmi delle carte da visita. Non facevo visite, veramente. Ma ne avevo data una alla mia amante che l’aveva piantata nella cornice dello specchio, ne avevo piantato un’altra nello specchio della mia camera, ed una sull’uscio al posto del cartellino manoscritto.

Ormai nessuno poteva più negare che mi chia-