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A quattordici anni mi sentii abbastanza forte e testardo per far fronte a tutte le obbiezioni della mamma, e ribellarmi risolutamente alla scuola. Del resto avevo in mio favore un argomento irresistibile: non imparavo nulla.

Mi posi al banco nella mia bottega; firmai parecchie ricevute col mio bravo nome tutto intero, feci perdere a mia madre il vezzo di chiamarmi Tacchino, gli avventori presero l’abitudine di dirmi signor Eustacchio; e mi credetti salvato dal ridicolo.

Furono buoni anni quelli. Nella mia bottega ero una potenza; ero padrone; e non avevo altra fatica fuorchè quella di accartocciare, pesare, contar denari e dire paroline inzuccherate alle servotte giovani, ed anche a quelle che non lo erano più tanto.

Ma cosa bella e mortal passa e non dura. Il vecchio garzone patentato che avevamo in negozio morì. Non era lui la cosa bella; ma la mia vita beata, che fu interrotta da quell’incidente funebre. Non potevo continuar a tener bottega aperta senza procurarmi una patente da droghiere; oppure un altro garzone patentato. Ma que-