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— Tacchino.

— Ah! ah! ah! Tacchino!

— Oh! oh! oh! Tacchino!

E tutti a ghignare guardandomi; e man mano che passavo loro accanto per andare al posto che m’era assegnato, facevano glu... glu... glu... glu... E daccapo a ridere.

Io non sapevo cosa volesse dire quella specie di gorgoglio, come se gargarizzassero; ma alla lunga capii che credevano d’imitare il grido del tacchino quando fa la ruota.

E questo durò per tutti gli anni di scuola.

Io cercavo di nominarmi spesso per poter dire il mio nome senza diminutivo. Ma che! L’avevano udito una volta; non potei più liberarmene.

Finii per fare l’abitudine a quegli scherzi, che erano poi sempre gli stessi, ma la scuola mi venne in uggia. La mamma trovava quelle burle insistenti, estremamente sciocche; ed infatti ripensandoci ora, non capisco come potessero alimentare per tanto tempo l’ilarità di quei monelli. Ma generalmente gli scherzi che divertono i ragazzi non sono più sensati di così.