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ca scendere la gradinata, ed avviarsi con rapidità convulsa verso di me.
Era Dora con un bell’abito di seta color di zolfo; aveva la coda lunga come una cometa, ed era ornato da sciarpe di velo reseda, sostenute con mazzi di rose d’un bel carmino. A breve distanza, ed a luce di luna quell’abbigliatura chiara pareva bianca.
Il volto pallido della signorina, i suoi occhi gonfi si accordavano male coll’aria di festa della sua casa e della sua abbigliatura.
Si gettò a sedere sul mio vaso, mi appoggiò la fronte al tronco, e rimase a lungo cosí, a capo chino, come se contemplasse la terra che mi circondava. Ma le cadevano dagli occhi grosse goccie cristalline, che non erano pioggia nè rugiada. Avevano un sapore acre. Erano lacrime.
Io le effusi intorno tutto il mio olezzo, la avvolsi in un’atmosfera di profumo, come si ravvolgono le reliquie adorate in nubi d’incenso. Ed il suo cuore, commosso da quella espansione, si aperse ad una confidenza intima, e sospirò:
— Se potessi non amarlo più!
Non amare, più chi? Il Canarino? Ma se l’aveva dimenticato! E poi perchè non amarlo più? Erano sempre andati d’accordo... No. Non poteva essere il canarino. Ma chi dunque? Io no di