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che doveva patire. Andava in chiesa la domenica col suo abito miserabile. Ma era bellina, ed in paese si sapeva che il farmacista Armenti è passabilmente agiato; malgrado il vestire che la sfigurava, la fanciulla fu domandata in moglie da un altro piccolo possidente del paese.
Ci furono dei discorsi fra i due babbi; ma il farmacista mise in campo tali esigenze, tali difficoltà, rese così impossibile alla modesta posizione dell'aspirante l'assicurare il capitale di ventimila lire che egli assegnava in dote alla figlia, che lo obbligò a rinunciare al suo disegno dinanzi a quelli ostacoli insuperabili.
Più tardi capitò un altro partito, appunto l'ufficiale che mi narrò questa storia; e furono le stesse scene. Ma questa volta l'avaro pensò di tagliar corto a quelle domande che lo mettevano alla tortura, perchè in realtà non sapeva rassegnarsi all'idea di staccare quella somma dal suo patrimonio, e di vederne spendere una parte, dissiparla, diceva lui, in mobili e cenci, che non avrebbero fruttato nulla.
Sapeva che per entrare monaca professa al Sacro Cuore bastavano da cinque a seimila lire, e, sborsate quelle, non c'era più da darsi pensiero della figlia; era provveduta per la vita.
Ne fece la proposta alla ragazza. Lei, poveretta, faceva una vita da disperata in casa. Era una serva senza paga, coi rimbrotti e le umiliazioni per giunta. Dei partiti che le erano capitati non sapeva nulla, osava appena mostrarsi fuor di casa in quell'arnese di miseria, e non sperava che nessuno potesse innamorarsi di lei.
I giorni passati in convento, invece, li ricordava