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per poter vedere in quel momento la Mercede. Pregai il padre di comunicarle egli stesso la mia domanda, di interrogarla in proposito, e lo lasciai.

Non tornai che tardi nella sera. C'era già tutta la compagnia solita, radunata intorno alla tavola; ed il brio del farmacista teneva tutti in allegria; ridevano, facevano grandi esclamazioni, si battevano le mani sulle ginocchia e picchiavano i piedi in terra nell'eccesso dell'ilarità.

La Mercede era la sola che non ridesse. Teneva il lavoro in mano, ma aveva le mani abbandonate in grembo, e stava immobile e seria, fissando gli occhi dinanzi a sè, come se leggesse le scritte sui vasi della scansia. Ma in realtà non si occupava di quei medicinali. Appena udì la mia voce si fece tutta rossa, poi si rizzò e mi venne incontro.

— Mi perdoni - disse. - L'avevo giudicato male; avevo creduto che volesse farsi gioco di me. Sa, quando si è disgraziati non si crede più al bene.

— Dunque mi accetta? - domandai prendendole la mano.

Strinse la mia, ma non mi rispose. La guardai negli occhi che teneva abbassati, e vidi che piangeva. Rispettai la sua commozione, e la ricondussi al suo posto senza parlarle. Poi, rivolgendomi all'ufficiale che m'aveva raccontato la storia di quella fanciulla disgraziata, gli dissi:

— Ti presento la mia sposa.

Così in un momento tutta la compagnia fu informata del grande avvenimento, ed io mi trovai impegnato colla società, come lo ero già colla mia coscienza.

Mi diedi subito d'attorno per trovare un alloggio