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Lo studio mi è necessario non solo per vivere, ma per distrarre la mente dai pensieri che mi assediano.

Vi sono uomini che si compiacciono nella solitudine e nella meditazione. Per me sono invece due cose tormentose; non so star solo con me stesso. La calma, l’inerzia sono fatali al mio spirito fantastico; se ne sbigottisce come un fanciullo lasciato solo in una camera buia. Tutte le cose mi appaiono più grandi del vero, prendono proporzioni paurose.

La notte scorsa mi svegliai col pensiero che il mio denaro stava per finire, che potrei perdere le poche lezioni che ho, e rimanere con nulla, dinanzi alla necessità di vivere e pagare la pigione. In pochi minuti che rimasi svegliato, vidi colla fantasia il mio ultimo soldo esaurito; T estate spinse ai bagni o in campagna i miei allievi, ed io mi trovai respinto da questa camera, messo sul lastrico, affamato, avvilito, e pensai al suicidio, al miserabile suicidio dell’indigenza, senza poesia di passione nel movente, senza poesia nell’esecuzione; un tonfo nel Naviglio per fuggire la fame, ed i commenti delle cronache di giornali.

Dovetti alzarmi, accendere il lume e mettermi a sonare per discacciare quei fantasmi dalla mente esaltata.

Quand’ero ricco, questo bisogno di fuggire me stesso mi spingeva a viaggiare con una rapidità febbrile. Andavo d’albergo in albergo, di città in città, come se avessi commesso un delitto, e la giustizia mi stesse alle calcagna.

Ora invece occupo il mio pensiero, ed abbatto l’immaginazione collo studio; e tanto e tanto, che non mi rimane più il tempo, nè la forza per fantasticare.