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Ma sentii un corpicino minuscolo e nervoso che si dibatteva in una convulsione di risa, e mi risuonò all'orecchio il cachinno della Marichita.

L'Eva era scesa con lei in giardino all'alba, e vedendomi là addormentato, l'aveva mandata a svegliarmi.

Ma all'udirmi susurrare il suo nome a quel modo, fra una furia di baci, non si divertì come la Marichita dell'equivoco. Comprese la mia illusione, e forse lo sgomento la fece ammutolire. Non mi disse una parola; richiamò la bambina e si ritirò in casa senza neppure guardarmi.

Alla lezione della bimba non la vidi. Mi fece dire che aspettava della gente a pranzo; che doveva dare degli ordini.

Ma non m'inquietai. Ero sicuro che non era offesa. Avevo letto sul suo volto una grande commozione, un grande abbattimento. Era ancora la paura di lasciarsi vincere, il sentimento della propria debolezza che la faceva fuggire. E quella debolezza era il mio trionfo.

Mi era entrata nel cuore la fiducia d'essere amato, ed era così bella, che m'inebbriava quasi come la presenza stessa dell'Eva.

Stavo là solo in quella stanza da pranzo fresca, alla luce mitigata dalle persiane; mi ero posto a sedere in una sedia a dondolo, e cullavo i miei sogni come un uomo beato; sorridevo alle mie speranze; vedevo delle oasi incantevoli; udivo delle melodie dolcissime in mezzo al coro incessante e monotono delle cicale che sonava alto nel silenzio della campagna.

Alle tre giunse il primo ospite.