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Una sera stavamo seduti l'uno accanto all'altra in giardino ed avevamo avviato uno dei soliti discorsi insidiosi. L'Eva aveva cominciato a dire che se il Malvezzi fosse stato giovane, ed avesse avuto le sue idee, si sarebbe ritirato a vivere in campagna a fondare un grande opificio per dare del lavoro a tutti i poveri; e lei avrebbe organizzato l'orario, perchè le fatiche di ciascuno fossero proporzionate alle forze, ed il compenso proporzionato ai bisogni.

E m'ero figurato d'esser io al posto di quel Malvezzi giovane immaginario; forse se l'era figurato anche lei.

Pensando l'approvazione amorosa dello sposo per quella donna virtuosa, la sua fiducia, il loro amore grande e nobile, spoglio da tutte le civetterie, dalle gelosie, dagli egoismi, dalle miserie piccole con cui la vita di società avvelena i sentimenti grandi, ci eravamo esaltati e commossi.

Quell'amore era il nostro. Eravamo appunto in campagna, e soli; sentivamo tutto quell'entusiasmo pel bene, e ci amavamo così.

Non avevo che a stendere le braccia per attirarla sul mio cuore. Un momento fui sul punto di cedere a quella tentazione angosciosa. Avevo le vertigini; il cuore mi batteva con violenza, tutti i nervi tremavano, ed una commozione violenta mi stringeva alla gola come un impeto di pianto.

Oh, se avessi potuto!

Sarebbe stata una di quelle gioie che valgono tutta una vita. Abbracciarla ben stretta, sfogare la passione lungamente repressa in un delirio di parole innamorate e di carezze, e poi portare il mio tesoro alla spiaggia, gettarci nel lago così strettamente congiunti, e convertire