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al sole aperto, lungo l’acque correnti, vita modesta e operosa. La memoria di Giuseppe e de’ benefizi dal suo governo resi all’Egitto s’era, coll’andar del tempo, illanguidita, come l’armonia d’una voce che va, e va, e poi si perde. Succedette dunque dopo tanti un certo re che non sapeva nemmeno chi fosse questo Giuseppe: e vuol dire ch’egli era un re che non si curava di sapere la storia del paese, e che, non sapendo la storia del paese, non lo poteva nè ben governare nè amare veramente.
Costui, ingelosito del numero e della potenza de’ figli d’Israello (Israello era un altro nome dato a Giacobbe: e chi dice Israelita, dice discendente del buon vecchio che ha avute tante grazie e promesse da Dio, e tanto patì), ingelosito costui, disse a’ suoi cortigiani: «Vedete questo popolo, come ingrandito! Ingegnamoci col nostro ingegno di schiacciarlo un po’; che non cresca maggiormente; e, caso che guerra ci colga, non si colleghino a’ nostri nemici, e da ultimo, fiaccati noi, non escano delle mani nostre». Il bravo re non dice: «Ingegnamoci di farceli amici; e per questo, amiamoli noi». Ne ha paura, li tiene come un pericolo continuo dinnanzi agli occhi; e col farsi odiare aggrava il pericolo. Ne ha paura dentro; e nondimeno non li vorrebbe lasciare che vadano via; vuol fare che diventino tante pecore, buone da mungere, da tosare, da mangiare, da vendere. Costui che dunque si pensa? Di imporre ai figli d’Israello lavori pubblici gravosi molto, e fare che lavorassero sotto mastri egiziani che li malmenavano. Così edificarono palazzi e piramidi, e due intere città più magnifiche di queste nostre. Ma che? Quante più erano le fatiche, e tanto più il numero degli oppressi moltiplicava: e perchè gli eran usi al lavoro, e perchè il lavoro rinforza le membra, e quand’è sostenuto a buon fine, nobilita le