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Abimelec ardito sotto la pioggia delle saette veniva co’ suoi; ed era già presso alla porta, con rami d’alberi e con fuoco per bruciare la porta, e aprirsi il passo. Quand’ecco una donna dalle mura l’adocchia e prende un pezzo di macine da mulino, e glielo gettò sulla testa, e gli fracellò le cervella. Lo trascinarono indietro, che combatteva con la morte. E quel disperato chiamò il suo scudiere e gli disse: «Sguaina la tua spada e feriscimi». L’ubbidì lo scudiere. Non vedeva il re miserabile, che in quel modo e’ periva per mano insieme e d’una femmina e d’un servitore; ché la spada del servitore non gli risarciva la ferita fattogli dalla femmina. Così per orgoglio negò a sé la consolazione estrema del chiedere pubblicamente perdono a Dio, e del volgere al suo popolo un’onesta parola. La costui vita e morte dimostra com’egli non pensasse che a sè. I cattivi, massime quando arrivano a comandare, si scomunicano dalla patria.

Tolto di mezzo Abimelec, fu levato l’assedio; e nessuno lo pianse. Ma i buoni, già oppressi da lui, gli avranno avuta più commiserazione che i tristi suoi complici nella iniquità.


Nel tempo che il popolo d’Israello non era suddito a re, ma che un giudice lo reggeva; venne un anno di fame grande, che la povera gente non sapeva come poter sostenere la vita. Allora un uomo che stava in Betlemme, si risolse, per non morire di morte lenta e non si sentir morire nella moglie e ne’ due suoi figliuoli, d’andarsene con la famigliuola sua nel paese de’ Moabiti, in cerca di lavoro e di pane. E’ si chiamava