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Capo VI

Eloquenza.

I. Un secolo che di leggiadri poeti, di eleganti storici e di scrittori colti di ogni maniera fu sì fecondo, ognun crederebbe che anche di eloquenti oratori dovesse vantare non picciol numero. Ma questa fu per avventura il genere d’erudizione di cui esso scarseggiò maggiormente. Nè è già che picciolo sia il numero delle orazioni nell’una e nell’altra lingua in questo secolo recitate, e poi date alla stampa. Ma fra tante orazioni, poche son quelle che si possono proporre a modello di vera e soda eloquenza. Io parlo singolarmente delle orazioni italiane, perciocchè quanto alle latine, esse sono in gran parte migliori, e si leggono con piacere e con frutto. Nè parmi difficile a indovinarne l’origine e la cagione. Pochi erano gli scrittori che nella lingua italiana ci avesser lasciate tali opere, sulle quali si potesse formar lo stile, e tra essi appena eravi cosa che appartenesse all’eloquenza; perciocchè le orazioni che in addietro soleansi recitare all’occasione di funerali, di nozze, e di altre somiglianti solennità, erano per lo più scritte in lingua latina. Il Decamerone era il miglior libro in prosa, quanto alla lingua, che si avesse allor tra le mani. Ma lo stile di esso, se può convenire a piacevoli e lieti novelle dette a trastullo della brigata, non può convenir certamente a grave e robusto oratore; e quel continuo ritondar de’