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1586, LIBRO di questo tomo, e appena s’incontrerà uom celebre nella letteratura, che non fosse ben istruito nel greco, e che non ne desse la pruova col recare o in italiano o in latino qualche scrittore di quella lingua. Anzi la cosa giunse a tal segno, che parve quasi che la lingua latina fosse per soffrirne gran danno, e che corresse pericolo di venire dimenticata: Quoque te veritas, scrive Bartolommeo Ricci in una sua lettera a Giambattista Pigna (Riccii Op. t. 2,! p. 377), parlando della lingua greca, cam lin~ guani altius radices egisse videbis. Haec enim jampridem in Germaniam, in Galliam, atque usque ad ultimas Gades penetravit In Italia vero ita dominati ir, ut pene Latinam linguam inde quoque dejecisse videatur. Si quidem in ea complures reperiantur, qui ne verbum quidem Latinum proferre sciunt, cum Grucce op» tirne scire existimentur. Non solo nelle più celebri università, ma in quelle città ancora che non aveano un pubblico studio generale, erano nondimeno maestri di quella lingua \ c noi già ne abbiam veduto altrove, e ne vedremo in questo capo medesimo diversi esempii. Qui basti accennare Venezia, ov era una cattedra di lingua greca, e ove venendo a mancare chi la occupava, solevasi bandire pubblicamente che chi volea sottentrarvi, venisse a dar pubblico saggio del suo sapere. E una bella testimonianza di ciò abbiamo in una lettera di Ambrogio Leone ad Erasmo, scritta in Venezia a’ 19 di luglio del 1518, la quale ci dà una sì gloriosa idea dell universale fervore in questo studi, ch’ ella merita di esser qui