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PIVIMO 30^ ed illustrar (quel luogo, ove voi li ponete, nè ci si vede ombra d ujjettazione. fi pritu ipio guarda il fine; il fine pende dal prim ipio; il mezzo è conforme all uno ed all altro con una conformità varia, che sempre diletta, e mai non sazia; le quali cose danno altrui più presto causa di maraviglia, che ardire di poterle imitare. Nè però vuolsi dissimulare che il Manuzio ancora ebbe riprensori e nimici. Nè è maraviglia, perciocchè come ne’ cibi, così nelle lettere ancora diversi sono i gusti, e ciò che sembra ad alcuni perfetto, da altri credesi difettoso. Più grave è l’accusa a lui data da Gabriello Barri, il quale ce lo rappresenta come un solenne plagiario e ardito usurpatore delle fatiche altrui. In una sua lettera a Pier Vettori, scritta il primo di agosto dell’an 1557;, egli arreca un passo della Grammatica latina di Aldo Manuzio il vecchio, in cui afferma che Giano Parrasio essendo in Milano al principio del secolo XV, avea pubblicati senza il suo nome certi frammenti d’antichità, e che avea quasi finita un’opera in XXV libri divisa su diversi punti d’erudizione, intitolata De rebus quaesitis per Epistolam. Soggiugne poscia il Barri che Paolo Manuzio, detto da lui avis implumis, et furax insignis, ebbe dal cardinale Seripando la suddetta opera del Parrasio e i Comenti del medesimo sulle Epistole ad Attico; ch’egli spacciò i Comenti per suoi, e dall'altra opera scelse alcuni passi soltanto, e li diede alla luce fingendo che tale edizione fosse eseguita a’ tempi di Aldo suo padre; e che diede il rimanente dell' opera al giovane Aldo suo figlio, a cui