Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo IV, Classici italiani, 1823, IV.djvu/393

3^3 libuo de’ popoli j e quanto nelle prime, che al suo ministero si convenivano, era stato felice, altrettanto fu infelice nelle seconde, dalle quali la sua professione dovea tenerlo lontano. 1 utti gli antichi storici da noi finora citati lodano l’eloquenza, il zelo, la pietà e tutte le virtù religiose di cui Giovanni era adorno j ma tutti insieme compiangono il non leggero errore in cui la sua imprudenza lo trasse, Rolandino solo non fa parola di tali rivoluzioni; ma sembra che qualche parte della sua Storia sia a questo luogo perita. Gherardo Maurisio è quegli che ce ne abbia parlato con più esattezza; e di lui perciò ci varremo singolarmente a ristringerle in breve, giovandoci però ancora al bisogno di altri o contemporanei o vicini scrittori. Poichè fu sciolta la grande assemblea di Verona, Giovanni andato a Vicenza (e non già a Brescia, come scrive Jacopo Malvezzi scrittor del secolo xv (Script. Rer. ital. vol. 15 , p. 905), e la cui autorità dee però cedere a quella degli scrittori contemporanei) e entrato nel consiglio della comunità, disse che voleva egli stesso essere signore e conte di quella città, e di ogni cosa disporre a suo piacimento. Era sì grande la maraviglia eli’ egli di se medesimo avea destata, che ogni cosa gli fu conceduta. Giovanni diedesi tosto , come altrove avea fatto, a esaminare, ad accrescere, ad emendar gli Statuti; e dato qualche provvedimento, passò a Verona 5 chiese ed ottenne il dominio ancora di quella città; v’introdusse il conte di S. Bonifacio: ricevette ostaggi dall’una parte e dall’altra delle già discordanti