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280 Lumo XXIV. L1 iuvcnzion delle cose die giovino a conoscer meglio, o a perfezionar la natura, ha sempre ottenuta l’immortalità del nome a chi ha potuto giugnen i felicemente. Una ne ebbe in questo secolo l’Italia, la quale, benchè dapprima non sembrasse opportuna che a recare all’uomo un passeggero vantaggio, è stata però col volger degli anni l’origine delle più belle scoperte che nella fisica si sian fatte, e si vadan facendo tuttora. Parlo dell’invenzion degli occhiali. Ella è cosa strana a riflettere che siasi tardato sì lungo tempo a immaginarla. Gli antichi conoscevano ed usavano il vetro, e il lavoravano in diverse maniere, come abbiamo in Plinio il vecchio (Hist. nat. l. 5, c. 19; L 26, c. 26; l. 37, c. 7, ec. ec.). Essi avean trovato che una sfera di vetro, ovver di cristallo, ripiena d’acqua e posta rimpetto al sole raccoglieva e trasmetteva i raggi per modo, che con ciò solo si ardevano e le vesti e gli stessi cadaveri (ib. l. 36, c. 26; l. 37, c. 2). Essi aveano specchi che ingrandivano, sformavano, capovolgevano stranamente gli oggetti (Seneca Quaest. nat. l. 1, c. 5, 6), e delle suddette sfere di ve-, tro ripiene d’acqua usavano ad ingrossare e a render leggibili le lettere più minute (ib.). Or è egli possibile che avendo tai cognizioni, non andasser più oltre? E nondimeno è certissimo che nelle loro opere non abbiamo alcun indicio di occhiali, di telescopii, o di altri somiglianti il’ogni Lelter. l. 1 , p. io3) che Vitellione altro non fece che ridurre a maggior brevità e a miglior ordine il trattato dell’arabo Alhezen , il che pure era già stato osservutu dal Montitela (Ilist. des Maltiéra. I. 1 , p. \ ).