Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo III, Classici italiani, 1823, III.djvu/601

54o LIBRO che, per così (lire, la richiamassero a vita, e aprisser la via non solo a’ lor nazionali, ma alle altre nazioni ancora, a scoprir di nuovo quelle medesime verità che i loro antenati aveano parimente illustrate, e a penetrare ancora più oltre nel regno della natura. Questo è ciò che dobbiamo ora esaminare partitamente, ragionando di quelli che con più felice successo coltivaron tra noi questa sorta di studj, o che ne furon maestri ad altre nazioni. II. Abbiam già favellato nel secondo capo di questo libro medesimo di due celebri Italiani, da’ quali singolarmente dee riconoscerla Francia il felice stato a cui ella giunse di questi tempi ne’ sacri studj, cioè di Lanfranco e di S. Anselmo. Nè punto meno dovettero a questi grand’uomini i filosofici studj che fino a quel tempo eransi giaciuti in Francia dimenticati e negletti. Rechiamone il testimonio degli contrastarglielo. Non solo ne5 secoli poco piò antichi di quello di cui parliamo, ma fin da tempi di Seneca crasi quest’abuso introdotto; e parlando di quell’età io ho riferito un passo di questo scrittore (t. 2 , p. 249) j in cui egli per saggio de’ viziosi sofismi che regnavano nelle scuole, reca quello stesso ridicolo sillogismo: Mus syllaba est: syllaba aulcm easeuni non roditi mus ergo cascuni non rodit, che l’abate Andres ha trovato in una lettera di un certo abate Wiboldo scritta a’ tempi di Corrado III (l.cit.p. 166). Non è dunque l’invenzione di tali sciocchezze che si rimprovera agli Arabi, ma il dilatarsi che fecero per mezzo loro in Europa, e l’impadronirsi, per cosi dire, delle scuole. E questo dal medesimo abate Andres non ci si nega; anzi egli confessa che all’introdursi de’ libri arabici s’introdussero ancora e sempre più si diffusero le sottigliezze e le ridicole cavillazioni, (ivi, p. ib’]).