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XXIV RIFLESSIONI SULL* INDOLE produrmi un solo scrittore che cel prescriva, o cel raccomandi. Ma, dirà egli, vedesi però certamente che gli scrittori italiani sembrano aver più riguardo all’armonia che alla forza. Sia pur vero. Ma ne vien egli per conseguenza che sia ciò difetto intrinseco della lingua? Se il sig. ab. Arteaga ne trae questa illazione, io non posso avere troppo favorevol concetto della sua logica. So in quel tempo in cui gli scrittori spagnuoli (e si può dillo stesso degl’italiani) non usavano nello stile che delle più ridicole e più strane metafore, si fosse ciò attribuito a colpa della lor lingua, che avrebbe detto il sig. ab. Arteaga? Io aggiungo anzi che niuna tra le viventi lingue d’Europa ha di sua natura una sì varia e sì moltiplice armonia , quanta ne ha l’italiana , del che niuno , io credo , vorrà muovermi dubbio, e che perciò non vi ha lingua in cui sia più agevole a chi ben la possiede l’unir l’armonia alla forza, e l’eleganza alla espressione. Ma di ciò dovremo nuovamente dir tra non molto. VI. Il cercar nelle metafore non quello che, rappresenta vivamente e pienamente l’oggetto, ma quello che V accenna soltanto, e lo mostra quasi in iscorcio. Io confesso che tanto ingegnosa è l’accusa, che non arrivo a comprenderla; e perciò non veggo la via a ribatterla. Vuol egli condennar le metafore generalmente , perchè esse non rappresentan l’oggetto che solo in iscorcio? O vuol condennar quelle soltanto che invece di pienamente descriverlo, non fan che adombrarlo? Se egli vuol essere inteso nel primo senso, egli avrà la gloria di essere il primo che sbandisca dal ragionar la metafora; perciocchè essa consiste appunto in questo , che l’oggetto si rappresenti sotto un’altra immagine che non l’adegua perfettamente (poichè allora non sarebbe metafora) ma lo rappresenta appunto quasi in iscorcio , segnando quei tratti ne’ quali l’oggetto e l’immagine si rassomigliano. Ma qualunque cosa egli intenda, la metafora è stata almeno in qualche tempo comune a tutte le nazioni; nè se ne può incolpare una più che un’altra lingua, poichè è in arbitrio degli scrittori di qualunque lingua il farne o saggio, o biasimevole uso. Gl’Italiani del secolo xvi furon per lo più troppo timidi nelle metafore: troppo arditi que’ del secolo XVII. Que’ del presente (intendo di que’ che scrivono italianamente, e