Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo I, Classici italiani, 1822, I.djvu/384

LIBRO TERZO 335 richiamarlo. E innoltre l’oggetto veduto da Ovidio non sarebbe stato un delitto; eppure un delitto da lui veduto ci conviene ad ogni modo trovare, per cui fosse dannato all’esilio. Inscia quod crimen viderunt lumina, plector. Quindi anche l’opinione del Bayle non sembra abbastanza fondata, nè una sufficiente ragione egli arreca di sì fiero sdegno di Augusto. XXXVIII. A me pare che una riflession diligente sull’indole di Augusto, sulla condotta da lui tenuta colla sua famiglia e sulla storia de’ tempi di cui parliamo, ci possa aprire la via a scoprir qualche cosa, e a indagare per avventura la ragione dell’esilio di Ovidio. Abbiam già accennato che Giulia la figliuola di Augusto era stata già da tredici anni innanzi rilegata dal pach e per le infami disonestà di cui scopersela rea. Or è da osservare che Augusto fu sommamente afflitto e confuso dal disonore che a lui e alla sua famiglia ne venne. Narra Svetonio (in Augusto c. 65) che men fu egli sensibile alla morte, che all’infamia de’ suoi; che quando venne a risapere le disonestà della figlia, trasportato dallo sdegno, per mezzo di un questore ne die’ avviso al senato; e che quindi tal vergogna n’ebbe che per lungo tempo si astenne dal trattar con alcuno; che gli venne anche in pensiero di ucciderla: e che avendo verso quello stesso tempo saputo che Febe, una delle liberte di Giulia e complice delle sue sceleratezze, si era colle proprie mani strozzata, disse che avrebbe amato meglio di esser padre di Febe, che non di Giulia; inoltre, che a questa