Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo I, Classici italiani, 1822, I.djvu/176


seconda 127

propaghi all’intorno. Or crederem noi che le navi romane si stessero così ferme, che permettessero ad Archimede l’usare a tutto suo agio de’ suoi specchi? o che quando pure cominciassero i raggi del sole ad operar sopra esse, non si movessero tosto di luogo ad impedirne l’effetto? e che quando ancora le avesse Archimede co’ suoi maravigliosi uncini immobilmente arrestate, non estinguessero in sulle prime i Romani il nascente fuoco, nè gli permettessero l’avvivarsi e il distendersi più oltre? Questo è ciò che a me rende più improbabile un tal racconto.


Nè è abbastanza provato. XXVII. Ma ancorchè un tal fatto si mostri e possibile e probabile, rimane ancora a vedere se debbasi veramente credere avvenuto. Ella è certo cosa maravigliosa, che i tre antichi autori che delle macchine di Archimede hanno diffusamente parlato, di questi specchi non faccian motto. Ne parla Zonara: ma oltrechè egli è autore troppo recente per ottener fede, ella è così sciocca la descrizione ch’egli ce ne fa, che non merita di esser confutata. Speculo quodam, dic'egli (Annal.t. 2), secondo la traduzione di Girolamo Wolfio, versus solem suspenso, aereque ob densitatem et laevitatem speculi ex iis radiis incenso, effecit, ut ingens fiamma recte in naves illata omnes eas cremaret. Nulla io dico dell'autorità di Eustazio commentatore di Omero (Ap. Fabric. Bibl. Graec. t. 2, p. 552), poichè egli è pure autor troppo recente, vissuto nel secolo xii. Più autorevole è il testimonio di Giovanni Tzetze, che nelle sue Chiliadi Storiche di questo specchio