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IPPOLITO PINDEMONTE
15Se impunemente esser potrai sì vaga!
Il men di che può donna esser cortese
Ver chi l’ha di sè stesso assai più cara,
Da te, Vergine pura, io non vorrei.
Veder quella in te ognor, che pria m’accese,
20Voglio, e ciò temo che men grande e rara
Parer ti fésse un giorno agli occhi miei.
Nè volentier torrei
Di spargerti nel sen foco amoroso:
Chè quanto è a me più noto il fiero ardore,
25Delitto far maggiore
Mi parría s’io turbassi il tuo riposo.
Maestro io primo ti sarò d’affanno,
E per me impareranno
Nuove angoscie i tuoi giorni, ed interrotti
30Sonni per me le tue tranquille notti.
Contento d’involarti un qualche sguardo
E di serbar nell’alma i casti accenti,
La sorte a farmi sventurato io sfido.
Tu non conoscerai quel foco in che ardo,
35E mireran tuoi bruni occhi ridenti,
Senza vederlo, il servo lor più fido.
Che se or ti parlo e grido
La fiamma di cui pieno il cor trabocca,
Farlo nella natía lingua mi lice,
40Che ancor non è felice
Sì che uscir possa di tua rosea bocca.
Più dolce e ricca sonería nel mio
Se udita l’avess’io
Sul labbro tuo: nè avrei sperato indarno
45Dal Tamigi recar tesori all’Arno.
Nè la man che ora, sovra i tasti eburni
Nel candor vinti, armonizzando vola.
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