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ferro al suo luccicare l’armatura che gli cuopre il petto, e naturale la tinta alquanto abbronzita del volto, a cui aggiunge severità lo sguardo abbassato, e l’ampia fronte, ed i capelli pochi e presso che radi della testa. Tu lo scolpisti, o Canova, in quello stato suo abituale di calma imperturbabile, che tale si mantenne anche allorquando l’ira furibonda di Nettuno squarciò in Eleos il seno dei vascelli a lui confidati; e nulla potendo contro la prora da un tanto nocchiero difesa, di cadaveri, di vele lacerate e d’antenne infrante circondolla, sicchè l’Eroe scrisse con quella rara magnanimità al Senato: «Padri Coscritti, deh! concedete, che per quanto può il mio Patrimonio, indennizzi di un tanto danno la patria.» Un bellissimo Genio alato, il Genio dell’Adria fiorente, quello medesimo, che assistette nelle luminose lor gesta Domenico Michiele in Tiro, Enrico Dandolo due volte a Costantinopoli, Morosini nel Peloponneso, e tanti altri sommi Eroi, quello medesimo col volo dell’acceso pensiero Canova raffigurò, e scolpì. Questo vezzoso giovinetto discende dal Cielo (nè altrove che in Cielo si vestono così pure ed angeliche forme); e col sorriso amabile della compiacenza, sta per porre sopra la testa dell’Eroe una corona civica, che tiene con ambe le mani. Dall’opposto lato la Fama, a cui sorgono sopra le morbide spalle due grandi ali, avendo deposta a’ suoi piedi la tromba, quasi servirsi volesse di