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prefazione


alla maniera del filosofo greco, segno evidente che monsignor Della Casa aveva letto con grande interesse l’opuscolo di Teofrasto.

«E, in camminando, troppo dimenarsi disconviene. Nè le mani si vogliono tenere spenzoloni, né scagliare le braccia, né gittarle, sicchè paia che l’uom semini le biade nel campo; né affisare gli occhi altrui nel viso, come se egli vi avesse alcuna maraviglia. Sono alcuni che in andando levano il piè tanto alto come cavallo che abbia lo spavento, e pare che tirino le gambe fuori d’uno staio; altri percuote il piede in terra sì forte che poco maggiore è il romore delle carra; tale gitta l’uno de’ piedi in fuori e tale brandisce la gamba. Chi si china ad ogni passo a tirar su le calze e chi scuote le groppe e pavoneggiasi, le quali cose spiacciono non come molto ma come poco avvenenti... Non si vuol medesimamente comparire con la cuffia della notte in capo, né allacciarsi anco le calze in presenza della gente. Sono alcuni che hanno per vezzo di torcer tratto tratto la bocca o gli occhi o di gonfiar le gote o di fare col viso simili atti sconci...»

Io non starò qui a confrontare i passi teofrastei che potrebbero avere ispirato monsignor Della Casa in così vivaci descrizioni, ma ognuno saprà avvertire leggendo Teofrasto che quel «brandir la gamba» e quel «gittar le braccia sicchè paia che l’uom semini le biade nel campo» e molte altre ancora sono immagini in tutto degne di Teofrasto. Non starò neppure a riprodurre un passo del Galateo, nel capitolo 47, dove si accenna a «coloro che altro non hanno in bocca giammai che i loro bambini e la donna e la balia loro: Il fanciullo mio mi fece iersera tanto ridere, e Voi non vedeste mai il più dolce figliuolo di Momo mio, e La donna mia è cotale, lo credereste del cervello ch’ell’ha...; ma si devo aggiungere che monsignor Della Casa prese per autentica perfino la prefazione bizantina e ne compose per il suo libriccino una tutt’affatto simile, immagi-

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