Aveo smesso di leggere per sonnecchiare, ed era
L’autunno, ve l’ho detto, e per giunta, la sera.
Il libro raccontava storie vecchie e infantili
Di castelli, di fate, di valletti gentili.
Talora licenzioso nei motti, ma coll’aria
Di un nonno che sorrida con malizia bonaria.
È strano come in quelle pagine polverose
L’amor sia schietto, e tutte le vicende festose. Si
direbbe che il tempo, inflessibile a noi,
Abbia corso a ritroso per tutti quegli eroi.
Le mura dei castelli son corrose e infrante,
E suvvi ci si abbarbica l’edera serpeggiante.
Son mozzate le torri, i merli son caduti,
Le sale spaziose i bei freschi han perduti;
I camini giganti dall’ali protettrici
Son colmi di macerie, stridon sulle cornici
I più grotteschi uccelli: ma sereni, sicuri,
Più forti che le torri e più saldi che i muri.
Quelli uomini di ferro d’ogni mollezza schivi
Si parano alla mente baldi, parlanti e vivi. Son
là, coll’armi al fianco, col grifalco in mano,
Ieri: leon di guerra, ed oggi: castellano.
Ignoranti di patria, di libertà: capaci
Di morire per un nome od un paio di baci.
Con tre motti stampati nel cuore e nella mente:
Il Re, la Dama, Iddio; e su questi, lucente