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108 | la secchia rapita |
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Qual fiero toro, a cui di funi ignote
cinto fu il corno e ’l piè da cauta mano,
muggisce, sbuffa, si contorce e scuote,
urta, si lancia e si dibatte in vano;
e quando al fin de’ lacci uscir non puote,
cader si lascia afflitto e stanco al piano:
tal l’indomito re, poiché comprese
d’affaticarsi indarno, al fin si rese.
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Fu drizzato il carroccio, e fu rimesso
in sedia il podestá tutto infangato.
Non si trovò il robon, ma gli fu messo
in dosso una corazza da soldato.
Le calze rosse a brache avea, col fesso
dietro, e dinanzi un braghetton frappato,
e una squarcina in man larga una spanna:
parea il bargel di Caifás e d’Anna.
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Ei gridava in bresciano: — Innanz, innanzi;
che l’è rott’ol nemig, valent soldati:
feghe sbitá la schitta a tucch sti lanzi
maledetti da Dé, scommunegati. —
Cosí dicendo, giá vedea gli avanzi
del destro corno andar qua e lá sbandati,
e raggirarsi per que’ campi aprichi
cercando di salvar la pancia ai fichi:
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però che ’l buon Perinto avea giá rotti
tedeschi e sardi e garfagnini e côrsi
e gli altri ch’al bottin fallace, indotti
da mal cauta speranza, erano corsi.
I tedeschi, del vino ingordi e ghiotti,
dietro a certi barili eran trascorsi,
che ne credeano far dolce rapina;
e in cambio di verdea trovâr tonnina.