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384.
Ebbro ne l’ira, perché vide accorre
Da la sua Galatea Clonico vile,
E si vide anzi gli occhi altri preporre,
4Altri avvezzo a curar l’aia e l’ovile,
Gittò Tirsi la lira, e — Che piú porre
Speme poss’io ne l’esser mio gentile, —
Disse, — se qui la nobiltà s’abborre,
8Ed ad uom rozzo sí è cortese e umile?
Dunque fia vero ch’io, patron di gregge,
Segua di donna temeraria l’orme
11Che si fa preda di bifolco indegno?
Deh! mio cor, desta la virtú che dorme;
E pensa ch’al tuo stato egregio e degno
14Disdice che costei t’imponga legge. —
385.
Empia Circe crudel gran tempo m’have
Con fallaci speranze e certo danno
Tenuto oppresso in cosí lungo affanno
4Ch’a rammentarlo ancor l’anima pave.
Or, che ritratto ho il cor dal giogo grave,
A ragion lei disprezzo e ’l mio error dànno,
Né temo che nov’arte o novo inganno
8O nova forza piú la prema o grave;
Perché da gli occhi de la mente insana
L’oscura nebbia è via sparita e sgombra,
11E l’amoroso foco in tutto è spento;
E veggio omai che false larve ed ombra
Di vero bene e sol bellezza vana
14Fu la indegna cagion del mio tormento.