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Flora si rivedeva bambina reclinare la fronte sul petto di Leone e addormentarsi dolcemente al suono delle parole che egli le mormorava; poi si rivedeva camminare con lui attraverso la campagna, entrambi silenziosi; egli assorto nel cruccio di un dolore irrimediabile, ella paurosa di scorgere negli occhi paterni l’ombra di smarri mento scorta il giorno in cui aveva chiesto perchè la mamma fosse sempre in viaggio, eterna mente in viaggio.

«Taci! Taci!» le aveva gridato Leone, sol levandola nelle braccia. «La mamma tornerà, deve tornare. Vedrai come saremo contenti allora. Tu ramerai e io le perdonerò!» poi, ad un tratto, forse vergognoso delle sue parole, il babbo l’aveva nuovamente deposta in terra, rimanendo accigliato ed assorto durante tutto il cammino.

E la mamma era tornata infatti, portando con sè, nella casa bianca, un fruscio di sete, un aroma di essenze, una irrequietezza di parole e di gesti, che, in mezzo alla tetra austerità della monotona esistenza campestre, producevano l’effetto di un bizzarro costume da maschera in mezzo agli arredi di una sacrestia monacale.

Allora la bimba era stata condotta a Pesaro e chiusa in un convento, dove, a più riprese, aveva sentito narrare, in modo confuso, che la mamma aveva intrapreso un nuovo viaggio, poi che era tornata, poi che era partita ancora; finché, un anno prima, il babbo, più curvo, più pallido, più emaciato nella persona, più incolto nelle vesti, cogli occhi sempre più ardenti, fissi nelle orbite sempre più fonde, era andato a ritirarla definitivamente dal collegio.