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Flora, sempre seduta in terra, con i gomiti appoggiati sulle ginocchia e il mento appoggiato sui piccoli pugni, guardava di sotto in su, tenendo quasi resupina la faccia delicatamente rosata. I capelli, biondi come gli steli delle spighe testò recise, le tremavano di un tremito cosi leggero intorno alle tempie, che l’aria sembrava circolare furtiva tra essi insieme alla luce.

Si guardavano fervidamente, insaziabilmente; guardandosi, ciascuno pareva trasmettere all’altro qualche cosa della personalità propria, tantochè il viso di Germano assumeva una espressione di soavità quasi femminea, mentre gli occhi cerulei di Flora diventavano scuri per il riflesso di quelle due scure pupille che in essi si sommergevano.

Il fluido dell’attrazione era tale che Flora si sentì come sollevata e si trovò in piedi senza saperlo.

Un riso tacito di beatitudine faceva palpitare le loro gole, e l’angusto tratto ombroso, che li isolava dalla luce della circostante campagna, era per essi un circolo magico, entro cui si sentivano divisi dal mondo.

Il cielo, a somiglianza della cupola di una immensa cappella, largiva alla loro giovinezza l’azzurro suo sfondo, e la terra, ammantata regalmente di messi, si compiaceva forse di loro come di due fiori meravigliosamente belli e vivi, sbocciati dal suo grembo fecondo.

I mietitori alzavano, a quando a quando, il capo dalla fatica per volgere loro un’occhiata di placida indifferenza, e le spigolatrici, sradicando l’esile fusto e umettando con la punta della lingua le labbra aride, sorridevano con indulgente malizia.