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il brillar delle falci, che ora folgoravano in alto come trofei di vittoria, ora sparivano entro il tesoro della messe, tosando rapide e sapienti il dorso della terra; il suonar delle voci, sonore nella parole meditate e tarde; il passo cauto delle spigolatrici, trepide nella ricerca delle rare spighe obliate dalle falci; il gesto inconscio, col quale i mietitori crollavano il capo per bagnare le zolle col copioso sudore della loro fronte; il canto piano e aperto di qualche giovanetta smarrita pei solchi ed esalante in leggiadri stornelli la inconsapevole gioia di vivere, formavano altrettante note di quella serena melodia campestre.

Allorchè le portatrici ebbero deposto a terra i canestri ed allorchè i mietitori si furono aggruppati intorno ad esse per il primo pasto della giornata, parve che tra il cielo e la terra corresse, in una salutazione angelica, il rinnovamento solenne dell’antico patto, segnato fin dalle origini prime del mondo.

Flora, seduta all’ombra di un pesco, guardava senz’ascoltare, bevendo per gli occhi la gioia e sorridendo alle visioni che le foggiavano intorno danze volubili.

Certo, in tutte le cose ella vedeva Germano, ella sentiva Germano.

Vedeva lo sguardo di lui nei raggi occhieggianti di tra le foglie dell’albero che in quel momento le offriva ombra, scorgeva la ben complessa figura di Germano nei tronchi dei giovani arbusti che sorgevano dal suolo con leggiadra baldanza per islanciarsi ad attingere vigore dalla luce col ciuffo oscillante dei rami; ne ammirava l’incedere spedito nell’ombra tenue che le cime irrequiete degli alberi facevano ondeggiare sul-