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grassi bocconi che ungono il palato e il vino generoso che riscalda il sangue.

— Una messa di meno per l’anima e una pietanza di più per il corpo — soleva egli dire, ed il suo corpo, infatti, aveva una capace forma tondeggiante, le gote erano lustre e gli occhi, azzurri, sporgenti come quelli della figlia, avevano sempre un certo luccichio di allegrezza ridanciana sotto le palpebre imbambolate.

Giovanni Tebaldi, senza curarsi di augurare al conte, mezzo addormentato, la buona sera, pro seguì col dottore Giani la disputa iniziata lungo la strada.

Appena quei due s’incontravano, cominciavano a lanciarsi di comune accordo insulti e vituperi, mettendosi a vicenda i pugni chiusi sotto la faccia, vociando, sbuffando, gesticolando, traendo dal gergo villereccio i più formidabili aggettivi per esalare la innocuità della loro rabbia.

— Già, precisamente, pare che la mia terra voglia allargarsi; pare che io ne comperi un altro pezzo — ricominciò il Tebaldi con aria di sfida, cacciandosi le mani nelle tasche degli ampi calzoni e righe e impostandosi sulle brevi gambe arcuate.

— La mia terra! — esclamò il dottore, gonfiando le gote e rifacendo il verso a Giovanni.

— La mia terra! Sua altezza il principe dei miei bottoni ingrandisce la sua terra! — poscia, cambiando tono e alzando sulla punta dei piedi la persona piccola, urlò sotto la faccia congestionata di Giovanni:

— Ma non vuoi capirlo, cretino, che la terra non è nè tua, nè mia?! La terra è di tutti e quel pezzo che tu chiami tuo te lo sei rubato; capisci bene, rubato!