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pazzando pei muri della cella, finché usciva dal l’angusta finestra con fragore di tuono.
Flora, leggendo le gesta del maledetto nella semioscurità del tetro stanzone, era scossa da brividi di paura.
Forse chissà che, all’improvviso, non balzasse dalle pagine del volume ingiallito, un essere piccolino e deforme, panciuto come otre, dalle gambe esili e bislenche, dai piedi biforcuti, dal corpo villoso, dalla barbetta di capra e dalle lunghe corna, mobili come fiamme, a sommo del muso orecchiuto? Chissà!
Lo sportello in legno della finestra, collocata quasi a livello del suolo, venne urtato da colpi violenti. Flora lasciò cadérsi di mano il volume e non trovò nemmeno la forza di alzarsi, tanto i ginocchi le tremavano.
— Flora, apri!
Era la voce di Balbina, e Flora corse ad aprire» liberata per incanto dalla sua stolta paura.
La famiglia Tebaldi, composta del padre, della madre e di Balbina, entrò, scuotendo la neve rimasta attaccata ai vestiti ed ai larghi ombrelloni verdi. Insieme ad essi entrò il dottore Giani con la persona solida e tozza avvolta nelle pieghe fluenti del mantello nero, che gli scendeva fino alle calcagna e gli dava uno strano aspetto di cospiratore.
Il Tebaldi aprì con furia il cappotto e si gettò verso la nuca il cappello di feltro scuro. Sentiva sempre caldo e bastava guardarlo per comprendere subito che egli, pure dedicandosi con alacre tenacia alle fatiche dei campi per rendere più vistosi i proventi del suo vasto podere, amava i