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e dagli occhi, languidamente socchiusi, partiva un così insistente invito al piacere, che l’abito vedo vile sembrava essere stato indossato per celia in un momento di allegria.

Flora peraltro, nella sua completa ignoranza di cose mondane, non discusse, nè analizzò. Ella aveva di fronte a sè l’effigie della madre che adorava coll’impeto dell’anima irrequieta e fluida già precedentemente turbata da strane crisi sentimentali.

Verso i dodici anni era stata presa da un amore inconsapevolmente torbido per la figura del Nazareno, dipinta da un artista grossolano sullo sfondo dell’altar maggiore nella chiesa parrocchiale di Novillara, dov’ella si recava allora ogni giorno per assistere alla cerimonia del mese mariano.

Flora non riusciva a spiegarsi il proprio sentimento, ma talora avrebbe voluto trasformarsi nei ceri dell’altare per ardere e consumarsi ai piedi di quella dolce figura, protesa verso di lei in atto benigno; talora avrebbe voluto dileguarsi in alto, col fumo dell’incenso saliente dal turibolo, per lambire coll’aroma la tunica del Redentore, e, ascendendo lentamente a spire oltre la cornice del quadro, avrebbe voluto perdersi al di là dei balconi ogivali nell’azzurro del cielo, sopra il cui fondo opalino le rondini formavano larghi e volubili rabeschi neri; talvolta avrebbe voluto morire lentamente presso l’immagine adorata, a guisa delle rose che appassivano entro le snelle coppe e che, fra il tepore dei ceri, si sfogliavano con melanconica sommissione, esalando un profumo incerto, appena percettibile in mezzo all’eccitante aroma dell’incenso e all’onda di odori che la campagna mandava dall’ampia porta spalancata.