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In lei due sentimenti opposti lottavano: la sensazione, tutta fisica, di ribrezzo per la forma tumida e grottesca che il corpo di suo padre aveva assunto, e uno struggimento di pietà devota che le suggeriva di prodigare le cure estreme a quella salma adorata. Sollevò con decisione il lenzuolo, ma un breve grido soffocato le usci dalle labbra ed essa, lasciando ricadere il drappo funerario, si portò le mani agli occhi con moto istintivo. Il volto del suicida era terribile. Pareva che, sul punto di morire, tutta la mansuetudine di quell’anima si fosse convertita in odio e che le labbra aperte, gli occhi schizzanti fuori dell’orbita, la chioma e la barba scomposte, quel l’odio volessero esprimere per tutta l’eternità.

— No — Flora mormorò a bassa voce, ribellandosi al terrore che tentava trascinarla lontano di lì — no, papà, io non ti lascerò chiudere così nella bara — e con le dita lievi, traendo forza gradatamente dal pio ufficio ch’ella compiva, spartì sulla fronte i capelli del morto e glieli raccolse dietro le orecchie, unì la barba, la strinse la lisciò nel concavo della piccola mano tremante, la distese cauta sul petto senza respiro, poi trasse dal seno il fazzolettino, umido per le lacrime, tepido e fragrante per il caldo aroma della sua pelle giovanile, e ne fece velo al deformato volto paterno.

A un tratto si ricordò che il babbo aveva consuetudine di tenere sempre nel portafogli una fotografia di lei quando era tanto piccina. Quel ritratto Flora lo rivoleva. Spinse la mano entro la tasca interna della giacca e ne ritrasse il logoro portafogli di pelle nera, inzuppato di acqua.

Lo aperse e vi trovò, insieme al ritratto, una