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senza conforto, senza nulla che blandisse il loro dolore o mitigasse l’ossessione di quel cadavere di annegato, giacente a pianterreno sopra una rozza coperta e sotto un rozzo lenzuolo.
Per qualche tempo Flora udì lo strisciare degli zoccoli nella sala sottostante, udì la porta d’ingresso aprirsi e richiudersi, udì il rumore di una seggiola trascinata da un punto all’altro della stanza. Poi non udì più nulla. L’orologio a pendolo suonò le nove, e, poiché il congegno del l’orologio simulava la voce del cuculo, ogni rin tocco veniva accompagnato da un gemito flebile e sinistro.
La pioggia sferzava le imposte della finestra e il vento, a intervalli, veniva furioso dal mare, trasvolava con veloce turbinìo sui campi e investiva la casa con boati di minaccia, che parevano sorgere dalle fondamenta, per fuggire dal tetto col fragore di mille catene agitate da mani furibonde.
Flora spinse il capo di tra lo spiraglio del l’uscio socchiuso e rimase in ascolto con le braccia strette in croce a comprimersi il petto; poi, non udendo il più lieve rumore, prese la candela che ardeva sul tavolo, aprì la porta pian piano e scese le scale trattenendo il respiro.
La stanza mortuaria era deserta. I contadini avevano pensato bene di andarsene a dormire, visto che i morti non sanno che farsene della compagnia dei vivi e che i vivi non guadagnano niente in compagnia dei morti.
Sul tavolo centrale una lampada a petrolio esalava dalla fiamma troppo alzata un odore asfissiante. Flora abbassò la fiamma, depose in terra la candela e s’inginocchiò presso il cadavere di suo padre.