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— Papà! Papà! rispondimi — e poichè nessuno rispondeva, poichè tutte le cose giacevano ignare e pigre nel consueto torpore, essa volle convincersi che i suoi terrori erano puerili e i suoi presentimenti bugiardi; ma intanto il rumore dell’acqua, che picchiava sommessa e frequente ai vetri delle finestre, le pareva il picchiare af frettato del destino, e le pareva che al destino urgesse di entrare e che ella, fra un attimo, se lo sarebbe veduto di fronte, alto e rigido, con vuote le occhiaie, spioventi le chiome, scarne e adunche le mani. A un certo punto ebbe la sensazione precisa di qualche cosa di viscido che le si attorcigliava intorno alla fronte. La porta d’ingresso, rimasta socchiusa, si spalancò violenta e le imposte di una delle due finestre si aprirono con fracasso nel tempo medesimo, facendo rumorosamente sbatacchiare gli sportelli contro il muro. Le cortine si agitarono convulse, come le ali di un uccellaccio ferito, mentre la pioggia, sospinta dal vento, empiva di spruzzi la stanza.
In quella un essere ibrido e mostruoso, un essere informe, un viluppo di gambe, di teste e di braccia, cominciò a salire la scala esteriore con andatura faticosa e obliqua. In mezzo al viluppo delle braccia distese, confusamente, qualche cosa d’inanimato giaceva. Un mucchio di abiti grondanti acqua, due scarponcini di bulgaro grondanti acqua e secondanti con inerte dondolìo i movimenti della massa, che saliva i gradini ansimando. Una testa, penzolante all’indietro, oscillava ora a destra ora a sinistra, fra i capelli bagnati, ricadenti sul viso tumido, intorno a cui la folta barba prolissa stava aderente, per l’acqua, a somiglianza di una benda.