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tranquilla. Le misere cortine delle due finestre scendevano flosce al dissotto dei cortinaggi sbiaditi; le figure delle oleografie, appese alle pareti, avevano tuttavia l’espressione medesima di noia rassegnata e stanca; sul tavolo stavano gli stessi gingilli polverosi: una bomboniera vuota di seta azzurra e scolorita, un portaritratti di cartone traforato, una lampada dal piedestallo di bronzo, sopra cui un largo paralume, di carta velina color di rosa, cadeva troppo ampio, troppo lungo, simile a una veste tagliata sui fianchi poderosi di una matrona e posata, per ischerno, sulle anche fuggevoli di una vecchia monaca incartapecorita.
Perfino il paniere da lavoro, che Flora aveva dimenticato sopra una seggiola, stava ancora lì, col cuscinetto degli spilli, col gomitolo del refe e con le piccole forbici aperte, quasi nell’impazienza di mordere alle trame sottili del ricamo.
Flora si avvicinò alla porta di fondo della stanza e alzò il capo per interrogare, con lo sguardo, la scala portante al piano superiore. La scala era immersa nell’ombra fosca e densa dei piovosi crepuscoli autunnali. L’ombra cominciava tenue sui primi gradini superiori e si addensava, man mano, sino ad assumere parvenza di forma solida.
— Papà! Papà! — chiamò Flora, senz’avere il coraggio di cimentarsi nell’oscurità della scala.
Nessuno rispose; anzi la eco della sua propria voce permise alla giovanetta di meglio misurare il sepolcrale silenzio regnante nella casa. Il cuore le batteva forte, come quando, piccina, le imponevano di dormire, abbandonandola sola nella camera buia.