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l'uncinetto nelle dita sottili, intenta a copiare il disegno di un complicato merletto, cui volgeva l'occhio a quando a quando.
Il sole di aprile, entrando liberamente per la finestra spalancata, avvolgeva in pulviscoli d'oro la persona della fanciulla, di cui la testa, curva sull'opera gentile, veniva così irraggiata da tante piccole scintille luminose.
— Si lavora, signorina — disse la portinaia, divertendosi a forbire con una cocca del grem biale la pietruzza di un anello toltosi dal dito.
— Già, per passare il tempo — rispose Flora e chinò anche di più la testa a evitare lo sguardo di Penelope, che ella, con senso intollerabile di fastidio, sentiva ostinato sopra di sè.
Era assurdo; eppure il viso rubicondo di quella donna le incuteva un terrore vago, come se quel viso fosse una maschera e dietro la maschera si celassero i tratti mostruosi di un essere destinato a divorarla.
Penelope si gettò indietro sopra la seggiola, allungò i piedi calzati di fiammanti scarponcini di cuoio giallo e sbadigliò, educatamente, dietro la mano.
— Scusi tanto, se sbadiglio, signorina; ma lei deve compatire. Ecco le dieci e non mi sono an cora ricordata di prendere il caffè. Cosa vuole, il sabato santo è una giornata tremenda per noi portieri! e, visto che il gomitolo del refe era balzato dal cestina da lavoro e il filo si era im pigliato nelle gambe di una seggiola, Penelope si alzò, trasse a sè il gomitolo, lo raccolse, lo ravviò e le porse alla signorina, domandando:
— La signora contessa si è alzata da molto tempo? — e riprese il suo posto, ben decisa a