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di un biondo tenue, che il vento aveva scomposti.

— Quanto a me — esclamò Balbina — preferisco piuttosto rammendare le calze di papà, quantunque ci siano in quelle calze buchi larghi come il mio pugno — e protese le mani grasse e tozze, troppo accese nel colore, troppo forti nei polsi.

— Com’è rossa la tua pelle — osservò Flora. Balbina ebbe un gesto di orgoglio. Avanzò il petto procace, si dimenò con moto leggiero sulle anche rilevate e spinse le braccia in avanti con atto spavaldo.

— Sono robusta io!

— Sì, sì, robustissima.

— Sono robusta e sono bella.

Flora la guardò curiosamente, ma non rispose.

— Come? Non ti pare che io sia bella? — esclamò Balbina, fissando con occhio di scherno provocatore la gracile persona dell’amica.

— No, bella non sei — asserì Flora con aria placida e con accento di assoluta convinzione.

Balbina diventò furibonda.

— Cara mia, è l’invidia che ti fa parlare. Guarda le mie braccia — e sollevò, con gesto rapido, le maniche del vestito — guardale, ti dico. Sono lisce come il marmo e tenere come il burro. Senti, senti, prova, se ti riesce, a trovarmi le ossa e con la sinistra afferrò la mano di Flora perchè le palpasse il braccio destro.

Flora si schermì con volto annoiato.

— Sì, sì, è vero, sei molto grassa; ma bella non sei.

— Credi tu che io abbia forse bisogno d’im-