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don Vitale si presentava e si profondeva in riverenze davanti a Vanna, ch'egli chiamava «riverita signora», mentre gli occhi tondi, sotto le ciglia arruffate, diventavano foschi, giacchè don Vitale era combattuto aspramente fra il rispetto alla gentildonna di antica razza, di cui egli, salito dalla gleba, venerava l'origine signorile, e l'istintivo rancore contro la femmina, la diffidenza ostile della chiesa cattolica contro la nemica, l'impura, colei che per la sua vanità e la cupidigia sua trasse il maschio alla perdizione, inducendolo al peccato e facendolo cacciar fuori del Paradiso terrestre.
Vanna rispondeva affabilmente contegnosa ai molti saluti di don Vitale, non ignara che i padri di lui si erano trovati in istato di domesticità presso i Monaldeschi, e non riuscendo a trattenere completamente il riso nel vederlo quadrato e tozzo sotto la veste talare, con le grosse labbra segnate dall'ombra nera dei baffi, che sarebbero stati foltissimi e irsuti, se la regola non gli avesse vietato di lasciarli crescere.
Ermanno, il quale al piano terra giuocava allegro con Serena, diventava afflitto all'annuncio delle lezioni di latino e saliva di malavoglia le scale, preceduto da Serena, che, dimenando le gambe e le braccia, entrava di corsa nel salone, fissava irosa la brutta faccia di don Vitale, e, simulando terrore, scappava poi subito, gridando:
— Il lupo! Il lupo! - La qual cosa faceva dire con rabbia a don Vitale che la gente nata in