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Allorchè le visitatrici erano uscite, ed Ermanno, in compagnia di Titta, era andato a giuocare al giardino pubblico, Vanna si lasciava cadere esausta in una poltrona, e rimaneva, fuori del tempo, con le mani sulle ginocchia, il busto ripiegato, gli occhi aperti e fissi a contemplare la cornice di un quadro. Non soffriva, ma era come indolenzita, intorpidita. Certe volte, quando le nubi si ammassavano in cielo e il tuono echeggiava in lontananza, un ombrellaio attraversava la piazzetta, gridando a ogni passo con cantilena desolante:
— Ombrelli, ombrellaio! Chi ha ombrelli da accomodare?
Allora, nell'udire quel grido, un senso ineffabile di sconforto la prendeva, uno stupore accorato di sentirsi vivere, una paura confusa della morte, una curiosità affannosa di veder l'ombrellaio, ch'ella aveva già veduto tante altre volte.
Si alzava dalla poltrona, correva alla finestra, spingeva le imposte, e l'uomo si arrestava, si volgeva al rumore, alzava la faccia scialba verso di lei e ripeteva, guardandola:
— Ombrelli, ombrellaio! Chi ha ombrelli da accomodare?
Vanna, spaventata, richiudeva le imposte e cominciava a piangere in silenzio. Di solito era quello il momento in cui Palmina entrava nel salone, sguisciando attraverso l'uscio socchiuso. Aveva finite le sue faccende e veniva a tenere un po' di compagnia alla signora.