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di popolo e giuravano pace, abbracciandosi, pronte a ridiventare ringhiose insieme coi loro uomini e ad eccitarli alla strage nelle ore dei frequenti conflitti.
Domitilla Rosa, avviandosi al Duomo, s'inoltrò per le vie traverse, a salite e discese, ampie e poi strette all'improvviso, a rapide svolte impreviste, interrotte da piazze disselciate, dove inaspettatamente qualche immenso palazzo cadente o il portale superbo di qualche chiesa, serbante nelle linee i segni del Sangallo o dello Scalza, narrano gli antichi fastigi della città.
Ella camminava nel sole, ancora benigno, senza incontrare anima viva, e salutava, andando, i rami degli alberi, che si affacciavano in silenzio dai muri bassi degli orti e dei giardini, o si arrestava un attimo per ammirare con infantile godimento le foglie brune dell'edera tappezzante i fianchi di qualche casupola dalle finestrelle chiuse, dalle porte alte e strette, in cima alle scale a doppia rampa, collocate all'esterno.
Nessuna di queste leggiadrìe della sua città sfuggiva a Domitilla Rosa, perocchè ella possedeva una inconsapevole anima di poeta. Certo, in lei doveva discendere, per lungo ordine di secoli, il senso d'arte di qualche maestro dell'opera, di qualche artigiano umile giunto di Siena o di Perugia al seguito di un maestro già esperto nei lavori della pietra e, divenuto esperto a sua volta, incaricato dai camerlenghi di scolpir figure bibliche o animali simbolici su qualche colonna