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striati d'oro, si confondevano col collare prezioso di martora, e quando essa, arrestandosi, girava la testa per invitarlo a sè, il profilo di lei si delineava in una purezza quasi immateriale in quella cristallina luminosità. Di nuovo le si poneva al fianco e, quantunque Vanna nulla gli avesse chiesto, egli le diceva in fretta: «Sissignora, sissignora», e si sentiva umiliato, irritato dentro di sè per l'eccesso della sua commozione. Sovente gli accadeva di rimanere colpito di stupore a certe risposte ardite e imprevedute di lei, che pur non era nè spiritosa, nè troppo colta, e che, di solito, gli appariva timida infantilmente.
— Perchè mi dice monna Vanna? - ella gli chiese un giorno, passeggiando: - Perchè questo suo modo di chiamarmi?
Egli le spiegò giovialmente che monna Vanna era una bellissima gentildonna pisana, la quale, per salvare dalla fame i suoi concittadini assediati, s'indusse a recarsi nella tenda del condottiero nemico, vestita solo di un mantello.
— Farebbe lei questo, monna Vanna, per salvare dalla fame i suoi bravi orvietani? - egli chiese in uno de' suoi scatti di spensieratezza.
Vanna Monaldeschi aggrottò l'arco delle nere ciglia e rispose altera, tingendosi di rossore:
— Non ce ne sarebbe bisogno, perchè i miei bravi orvietani hanno saputo respingere anche gli imperatori dalle loro mura - e, richiamato Ermanno presso di sè, gli disse che sentiva freddo e che voleva tornare a casa.