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seduto da un panico indefinibile, e vi fu un istante in cui si sentì tentato di rinunciare a quella specie di morte, e di raggiungere Lamperth all’albergo del Ciclope, per combinare con lui su qualche mezzo di distruzione meno inumano. Ma era troppo tardi. E d’altra parte, giacchè era d’uopo morire, conveniva accettare quel mezzo che era più pronto, più sicuro e che non avrebbe lasciato concepire alcun sospetto d’inganno sulla sua fine. Chi sa! Forse il morire tra le zanne d’un leone poteva essere più dolce, più rapido che il morire di ferita o di veleno, o per altra causa qualunque — certo era più verosimile e più ardito.

Animato da questo ragionamento, Rosen si avvicinò alla gabbia, e sollevò le tre aste di ferro che nè formavano l’uscio. Paralizzato dal timore, colle mani appoggiate sull’orlo dello steccato, in atteggiamento di vittima rassegnata aspettava che Behemet uscisse.

Il leone dopo essersi allungato due volte e aver sbadigliato lungamente inarcando la lingua come una bestia che sa di potersi pigliare i suoi comodi, si affacciò allo sportello, guardò con aria d’indifferenza il barone di Rosen cui era venuto, suo malgrado, la pelle di cappone; e discendendo nello spazio riservato agli spettatori, incominciò a passeggiarvi per lungo e per largo, agitando la coda, e mandando un certo suo ruggito prolungato e sommesso in suono di soddisfazione e di gioia.

Quando Rosen si avvide che Behemet non si curava di lui, avendo ripreso animo in quel