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d’oro massiccio sporgenti dalle pareti, si dondolavano per moto proprio; ed emettevano un vapore profumato, in mezzo alle cui spire volteggiavano delle figurine nude, le quali cambiavano forma e colore ad ogni istante, e giunte ad una certa altezza, si assottigliavano e si scioglievano in fumo. Le esalazioni di quei turiboli agivano sì potentemente sui sensi che io mi sentiva come preso da ebbrezza, nè poteva prestare attenzione al canto soavissimo di certi uccelli che non vedeva, ma che pensai dovessero essere rinchiusi in una gabbia sospesa nell’azzurro del soffitto.
Non parlerò del mio letto, del mio trono, di tutti i mobili delle mie stanze; sarebbe impossibile dirne la foggia, l’uso, i dettagli; erano pelliccie sovrapposte a pellicce, tramezzate di strati di petali di rosa che si mutavano ogni giorno: le sedie si cullavano da sè, volendo ristavano: e le dame di corte — le più attraenti beltà di Potikoros — avvolte in un semplice velo color di rosa, andavano e venivano per le stanze, ansiose di sorprendere ogni mio più piccolo desiderio, ogni mio bisogno più insussistente, e soddisfarlo colla rapidità del pensiero.
Appena posto piede nel mio gabinetto particolare, alcune di queste dame mi presentarono il mio nuovo costume di monarca, e si accinsero a spogliarmi del mio abito di borghese (sotto il mantello reale che avea indossato nel padiglione, io vestiva ancora in quell’istante un abito a coda di rondine, di cui non avevo per anco soddisfatto il conto al mio